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Descrizione

Una stella è un corpo celeste che brilla di luce propria. In astronomia e astrofisica il termine designa uno sferoide luminoso di plasma che genera energia nel proprio nucleo attraverso processi di fusione nucleare; tale energia è irradiata nello spazio sotto forma di radiazione elettromagnetica, flusso di particelle elementari (vento stellare) e neutrini.
La stella più vicina alla Terra è il Sole, sorgente di gran parte dell'energia del nostro pianeta. Le altre stelle, ad eccezione di alcune supernova e, sono visibili solamente durante la notte come dei puntini luminosi, che appaiono tremolanti a causa degli effetti distorsivi operati dall'atmosfera terrestre.
Sono oggetti dotati di una massa considerevole, compresa tra 0,08 e 150–200 masse solari (M). Gli oggetti con una massa inferiore a 0,08 M sono detti nane brune, corpi a metà strada tra stelle e pianeti che non producono energia tramite la fusione nucleare, mentre non sembrano esistere, almeno apparentemente, stelle di massa superiore a 200 M, per via del limite di Eddington. Sono variabili anche le dimensioni, comprese tra i pochi km delle stelle degeneri e i miliardi di km delle supergiganti e ipergiganti, e le luminosità, comprese tra 10−4 e 106 - 107 luminosità solari (L).
Le stelle si presentano, oltre che singolarmente, anche in sistemi costituiti da due (stelle binarie) o più componenti (sistemi multipli), legate dalla forza di gravità. Un buon numero di stelle convive in associazioni o ammassi stellari (suddivisi in aperti e globulari), a loro volta raggruppati, insieme a stelle singole e nubi di gas e polveri, in addensamenti ancora più estesi, che prendono il nome di galassie. Numerose stelle possiedono inoltre uno stuolo più o meno ampio di pianeti.
Nel corso della storia numerosi filosofi, poeti, scrittori e musicisti si sono ispirati al cielo stellato per la realizzazione delle loro opere e, in diversi casi, si sono interessati direttamente allo studio dell'astronomia. La stella maggiormente visibile dal nostro pianeta, nonché la più vicina in assoluto, è il Sole: esso occupa la parte centrale del nostro sistema solare e si trova a una distanza media di 150 milioni di km dalla Terra; la sua vicinanza fa sì che sul nostro pianeta arrivi una quantità di luce tale che, nell'emisfero in cui esso è visibile, le altre stelle sono oscurate. Se guardato direttamente senza protezione, il Sole può persino causare danni permanenti alla vista. In generale tuttavia, quando ci si riferisce al termine "stella" si pensa a tutti gli altri corpi celesti che hanno caratteristiche simili al Sole, ma che si trovano più lontane; in particolare, si pensa ai punti luminosi di vari colori che popolano un cielo notturno le cui condizioni atmosferiche sono ottimali, ossia senza nubi né foschia o inquinamento luminoso.
Le stelle non appaiono tutte della stessa brillantezza, infatti mostrano una vastissima gamma di luminosità; ciò è dovuto principalmente a due fattori. Il più importante è la distanza: le stelle infatti sono distribuite nello spazio in modo irregolare, a causa del loro moto proprio, di eventi esterni ad esse che ne possono alterare la distribuzione come le esplosioni di supernovae, della loro stessa origine all'interno di nubi molecolari e, in grande scala, della morfologia e delle dinamiche galattiche. Il secondo, non meno importante, è la luminosità intrinseca della stella, che dipende dalla sua massa, dalla sua temperatura superficiale e dalla sua fase evolutiva: una stella di grande massa può essere anche decine di migliaia di volte più luminosa di una stella di piccola massa. A titolo di esempio, basta pensare che la stella più vicina a noi, il sistema di α Centauri, è solo la terza stella più brillante del cielo notturno, mentre Sirio, che sta a oltre il doppio della distanza, è la più brillante; la seconda stella più luminosa del cielo è invece Canopo, una stella supergigante gialla circa settanta volte più distante di α Centauri ma almeno 20 000 volte più luminosa.
Ad occhio nudo è possibile scorgere, in una notte con condizioni atmosferiche ottimali, fino a 3000-4000 stelle, a seconda del luogo e del periodo di osservazione; le aree di cielo con la densità maggiore di stelle visibili sono quelle in prossimità della scia luminosa della Via Lattea, dove la linea di vista incrocia più stelle. In generale, dall'emisfero boreale i cieli più ricchi di stelle sono quelli invernali, mentre quelli estivi, nonostante sia visibile il centro della Via Lattea, sono leggermente meno ricchi; inoltre, i cieli più ricchi di stelle in assoluto sono quelli dell'emisfero australe, e in particolare le sue notti estive. Sarebbe logico invece pensare che in direzione del centro galattico siano visibili, anche ad occhio nudo, molte più stelle rispetto alla direzione opposta; questo paradosso apparente è dovuto a tre fattori principali: il primo è legato alla morfologia del braccio di spirale in cui ci troviamo, che presenta in direzione opposta al centro galattico e nella direzione dell'emisfero australe una grande struttura ad arco di stelle giovani, chiamata Cintura di Gould, composta da centinaia di stelle luminose; il secondo fattore riguarda la nostra posizione, sul bordo interno del Braccio di Orione, pertanto la gran parte del nostro braccio di spirale ospitante è visibile in direzione opposta al centro galattico, mentre il braccio più vicino in direzione interna, quello del Sagittario, dista alcune migliaia di anni luce, per cui la distanza delle sue stelle è notevolmente superiore a quelle del nostro braccio di spirale. Terzo fattore è la presenza, nel tratto di cielo visibile dall'emisfero nord, di enormi banchi di nebulose oscure relativamente vicini a noi, che occultano le grandi regioni di formazione stellare del nostro braccio di spirale come il Complesso di Cefeo e del Cigno.

Quante stelle vediamo ?

Le hanno contate, sono in tutto circa 6000 quelle che si vedono in ambedue gli emisferi, quindi una persona può vederne al massimo 3000.

Ciò è possibile solo in un cielo perfettamente buio, privo di nuvole o foschia e senza la piaga dell'inquinamento atmosferico e luminoso che sporca i nostri cieli.

Da un centro cittadino molto illuminato, come Latina, è difficile vederne più di due/tre in piena notte; appena si esce dal centro se ne possono vedere alcune decine; si arriva alle centinaia oppure migliaia di stelle se osserviamo il cielo dalle campagne e sulle montagne vicine ma lontano dai centri abitati.

Ci sono stelle più luminose e stelle meno luminose, ma tutte sono dei puntini microscopici, talmente piccoli che non hanno superficie.

Quelle più luminose sembrano più grandi delle altre ma sono soltanto più luminose e la maggiore intensità di luce le fa apparire ai nostri occhi ed al nostro cervello anche più grandi.

La più luminosa di quelle che vediamo è anche la più vicina: è Sirio.

Sirio è la stella più luminosa della costellazione del Cane Maggiore e un po' a sinistra c'è la stella Procione che è la più luminosa del Cane Minore.

Abbiamo detto che Sirio è la stella più vicina di quelle che vediamo nel nostro cielo.

Vicina...quanto? 8 Anni Luce.

Tutte le stelle che noi vediamo in cielo distano tra gli 8 ed i 2000 anni luce e sono le più vicine fra tutte quelle della nostra galassia che in totale ne conta circa 250 miliardi (miliardo più miliardo meno....) e di queste, le più lontane si trovano a circa 100.000 anni luce di distanza.

 

 

 

 


Il sistema delle costellazioni fu perfezionato nel II millennio a.C. dalla civiltà babilonese, che diede gli attuali nomi - quasi tutti di origine sumerica - alle costellazioni zodiacali e creò un calendario lunare, incentrato sul susseguirsi dei fenomeni celesti che scandivano il ciclo delle stagioni. Nella zona di Babilonia è stato rinvenuto un elenco con tutte le costellazioni e gli oggetti celesti visibili, che allora erano disposti nel firmamento non molto diversamente dalla loro attuale posizione. La civiltà mesopotamica aveva anche un grande interesse per l'astrologia, allora ritenuta una vera e propria scienza. La civiltà egizia aveva delle elevate conoscenze astronomiche: testimonianza ne è il ritrovamento a Dendera della più antica ed accurata carta stellare, datata al 1534 a.C. Anche i Fenici, popolo di navigatori, avevano buone conoscenze astronomiche. Essi si riferivano già all'Orsa Minore come mezzo di orientamento per la navigazione, e si servivano come indicatore del Nord della Stella Polare, che nel 1500 a.C. doveva essere già molto vicina al Polo Nord celeste. La moderna scienza astronomica deve molto all'astronomia greca e a quella romana. 48 delle 88 costellazioni moderne furono codificate e catalogate già nel II secolo d.C. dall'astronomo Claudio Tolomeo, ma ancora prima di lui astronomi del calibro di Eudosso di Cnido (V-IV secolo a.C.) ed Ipparco di Nicea (II secolo a.C.) stilarono cataloghi stellari sulla base di quelli prodotti dalle civiltà precedenti da essi stessi studiate.
Lo stesso Ipparco, assistendo fortunosamente allo scoppio di una nova nella costellazione dello Scorpione, giunse a dubitare dell'immutabilità della sfera celeste. Inoltre egli, avendo notato, dopo attente osservazioni, che la posizione delle costellazioni era mutata rispetto a quanto annotato dagli astronomi precedenti, arrivò a scoprire il fenomeno della precessione degli equinozi, vale a dire il lento ma continuo cambiamento dell'orientamento dell'asse terrestre rispetto alla sfera ideale delle stelle fisse. Proprio al tempo dei Greci gli asterismi persero la loro iniziale valenza naturalistica assumendone una prettamente mitologica: si devono infatti alla cultura mitologica della Grecia classica i miti e le leggende legati a gran parte delle costellazioni. I Greci assegnarono inoltre i nomi delle divinità dell'Olimpo ad alcune "stelle" particolari, da loro definite (planētai, vagabondi), che sembravano muoversi rispetto alle stelle fisse: si trattava dei pianeti del Sistema solare. Ne riconobbero però solo sei: infatti di Urano, che appare come una debole stella ai limiti della visibilità ad occhio nudo in un cielo molto scuro, nessuno registrò mai il moto orbitale; Nettuno, invece, risulta completamente invisibile ad occhio nudo. A causa della loro scarsa luminosità, dovuta alla grande distanza, i due pianeti più esterni furono scoperti solo in epoca recente: il primo nel 1781, il secondo nel 1846. Durante l'epoca medioevale vi fu un generale periodo di stasi nelle ricerche astronomiche dovuto essenzialmente al fatto che gli astronomi cristiani preferirono accettare la cosmologia aristotelico-tolemaica, che risultava in sintonia con gli scritti biblici, rinunciando persino alle osservazioni. Si distinsero però in questo periodo gli astronomi islamici, riscopritori e grandi estimatori dell'Almagesto di Tolomeo, che diedero nomi arabi, gran parte dei quali ancora oggi usati, a un gran numero di stelle; inventarono inoltre numerosi strumenti astronomici in grado di tenere in conto la posizione degli astri. Nell'XI secolo l'astronomo Abū Rayhān al-Bīrūnī descrisse la nostra galassia, la Via Lattea, come una moltitudine di frammenti dalle proprietà tipiche delle stelle nebulose, calcolando anche la latitudine di alcune stelle durante un'eclissi lunare avvenuta nel 1019. Anche gli astronomi cinesi, come Ipparco prima di loro, erano consapevoli del fatto che la sfera celeste non fosse immutabile e vi potessero apparire delle stelle mai viste prima: essi assistettero infatti all'esplosione di diverse supernovae in epoca storica, sulle quali redassero ampie e dettagliate relazioni. Una delle più importanti fu quella la cui luce, emessa circa 3000 anni prima di Cristo, raggiunse la Terra il 4 luglio 1054: si tratta di SN 1054, esplosa nella costellazione del Toro, il cui resto è la celebre Nebulosa del Granchio (catalogata secoli dopo dal francese Charles Messier come Messier 1 – M1 –). I primi astronomi europei dell'epoca moderna, come Tycho Brahe e il suo allievo Johannes Kepler arrivarono a dubitare dell'immutabilità dei cieli. Essi infatti individuarono nel cielo notturno alcune stelle mai viste in precedenza, che denominarono stellae novae, ritenendo che fossero stelle di nuova formazione; si trattava in realtà di supernovae, ovvero stelle massicce che concludono la propria esistenza con una catastrofica esplosione. Nel 1584 Giordano Bruno, nel suo De l'infinito universo e mondi, ipotizzò che le stelle fossero come altri soli e che attorno ad esse potessero orbitare dei pianeti, probabilmente anche simili alla Terra. L'idea però non era nuova, dato che in precedenza era stata concepita da alcuni filosofi della Grecia antica, come Democrito ed Epicuro; pur inizialmente bollata come eresia, l'ipotesi guadagnò credibilità nei secoli successivi e raggiunse il consenso generale della comunità astronomica. Per spiegare come mai le stelle non esercitassero attrazioni gravitazionali sul Sistema solare, Isaac Newton ipotizzò che le stelle fossero equamente distribuite in ogni direzione. La stessa idea era stata formulata in precedenza dal teologo Richard Bentley, cui forse si ispirò lo stesso Newton. L'italiano Geminiano Montanari registrò nel 1667 delle variazioni nella luminosità della stella Algol (β Persei). Nel 1718, in Inghilterra, Edmond Halley pubblicò le prime misurazioni del moto proprio di alcune delle stelle più vicine, tra cui Arturo e Sirio, dimostrando che la loro posizione era mutata rispetto al periodo in cui erano vissuti Tolomeo ed Ipparco. William Herschel, lo scopritore dei sistemi binari, fu il primo astronomo a tentare di misurare la distribuzione delle stelle nello spazio. Nel 1785 egli eseguì una serie di misure in seicento direzioni diverse, contando le stelle contenute in ciascuna porzione del campo visivo. Notò poi che la densità stellare aumentava man mano che ci si avvicinava ad una determinata zona del cielo, coincidente col centro della Via Lattea, nella costellazione del Sagittario. Suo figlio John ripeté poi le misurazioni nell'emisfero meridionale, giungendo alle stesse conclusioni del padre. Herschel senior disegnò poi un diagramma sulla forma della Galassia, considerando però erroneamente il Sole nei pressi del suo centro. La prima misurazione diretta della distanza di una stella da terra fu operata nel 1838 dal tedesco Friedrich Bessel; egli, servendosi del metodo della parallasse, quantificò la distanza del sistema binario 61 Cygni, ottenendo come risultato un valore di 11,4 anni luce, tuttora accettato, seppur con maggiori affinazioni. Le misurazioni effettuate con tale metodo dimostrarono la grande distanza che intercorre tra una stella e l'altra. Joseph von Fraunhofer ed Angelo Secchi furono i pionieri della spettroscopia stellare. I due astronomi, confrontando gli spettri di alcune stelle (tra cui Sirio) con quello del Sole, notarono delle differenze nello spessore e nel numero delle loro linee di assorbimento. Nel 1865 Secchi iniziò a classificare le stelle in base al proprio tipo spettrale, ma lo schema classificativo attualmente utilizzato fu sviluppato nel corso del Novecento da Annie J. Cannon. Le osservazioni dei sistemi binari crebbero di importanza durante il XIX secolo. Il già citato Bessel osservò nel 1834 delle irregolarità e delle deviazioni nel moto proprio della stella Sirio, che imputò ad una compagna invisibile individuata tempo dopo nella nana bianca Sirio B. Edward Pickering scoprì la prima binaria spettroscopica nel 1899, quando osservò che le linee spettrali della stella Mizar (ζ Ursae Majoris) mostravano degli spostamenti regolari in un periodo di 104 giorni. Contemporaneamente le osservazioni dettagliate, condotte su molte stelle binarie da astronomi quali Wilhelm von Struve e Sherburne Wesley Burnham, permisero di determinare le masse delle stelle a partire dai loro parametri orbitali. La prima soluzione al problema di ricavare l'orbita di una stella binaria sulla base delle osservazioni al telescopio fu trovata da Felix Savary nel 1827. Il XX secolo vide grandi progressi nello studio scientifico delle stelle; un valido aiuto in quest'ambito fu fornito dalla fotografia. Karl Schwarzschild scoprì che il colore di una stella (e dunque la sua temperatura effettiva) potevano essere determinati confrontando la magnitudine rilevata dall'osservazione e quella dalla fotografia. Lo sviluppo della fotometria fotoelettrica consentì delle misurazioni molto precise della magnitudine in molteplici lunghezze d'onda. Nel 1921 Albert A. Michelson eseguì la prima misurazione di un diametro stellare tramite l'utilizzo di un interferometro montato sul telescopio Hooker dell'osservatorio di Monte Wilson. Un importante lavoro dal punto di vista concettuale sulle basi fisiche delle stelle venne svolto nei primi decenni del secolo scorso, grazie anche all'invenzione nel 1913, da parte di Ejnar Hertzsprung e, indipendentemente, Henry Norris Russell, del diagramma H-R. In seguito furono sviluppati dei modelli per spiegare le dinamiche interne e l'evoluzione delle stelle, mentre i progressi conseguiti dalla fisica quantistica consentirono di spiegare con successo le particolarità degli spettri stellari; ciò ha permesso di conoscere e determinare con una certa accuratezza la composizione chimica delle atmosfere stellari. I progressi tecnologici dell'osservazione astronomica hanno consentito agli astronomi di osservare le singole stelle anche in altre galassie del Gruppo Locale, l'ammasso cui appartiene la nostra Via Lattea. Recentemente è stato possibile osservare alcune stelle distinte, per lo più variabili Cefeidi, anche in M100, una galassia che fa parte dell'Ammasso della Vergine, posta a circa 100 milioni di anni luce dalla Terra. Al momento non è stato possibile osservare né ammassi stellari né tanto meno singole stelle oltre il Superammasso Locale; l'unica eccezione è stata la debole immagine di un vasto superammasso stellare, contenente centinaia di migliaia di stelle, posto in una galassia distante un miliardo di anni luce da Terra: dieci volte la distanza dell'ammasso stellare più lontano sino ad ora osservato. A partire dai primi anni novanta sono stati scoperti, in orbita attorno a un cospicuo numero di stelle, numerosi pianeti extrasolari; il primo sistema planetario extrasolare fu scoperto nel 1990 in orbita alla pulsar PSR B1257+12 e consta di tre pianeti, più una probabile cometa. In seguito si sono registrate numerose altre scoperte che hanno portato a più di 270 il numero dei pianeti extrasolari attualmente confermati.

 

 

 

 


La maggior parte delle stelle è identificata da un numero di catalogo; solo una piccola parte di esse, in genere le più luminose, ha un nome vero e proprio che deriva spesso dalla denominazione originale araba o latina dell'astro. Molti di questi nomi sono dovuti ai miti loro associati, alla loro posizione nella costellazione (come Deneb - α Cygni -, che significa la coda poiché corrisponde alla coda del Cigno celeste), oppure al particolare periodo o alla particolare posizione in cui esse compaiono nella sfera celeste nel corso dell'anno; un esempio in questo senso è Sirio, il cui nome deriva dal greco σείριος (séirios), che significa ardente, scottatore. Infatti gli antichi greci associavano la stella al periodo di maggior caldo durante l'estate, la canicola, poiché dal 24 luglio al 26 agosto l'astro sorge e tramonta con il Sole (levata eliaca). A partire dal XVII secolo si iniziò a dare alle stelle, in certe regioni del cielo, i nomi delle costellazioni cui appartenevano. L'astronomo tedesco Johann Bayer creò una serie di mappe stellari (raccolte nell'atlante Uranometria) in cui si servì, per denominare le stelle di ciascuna costellazione, delle lettere dell'alfabeto greco (assegnando la lettera α alla più luminosa) seguite dal genitivo del nome della costellazione in latino; questo sistema è noto come nomenclatura di Bayer. Tuttavia, poiché le lettere greche sono molto limitate, capita che in talune costellazioni, che contengono un elevato numero di stelle, si rivelino insufficienti; Bayer pensò allora di ricorrere alle lettere minuscole dell'alfabeto latino una volta esaurite quelle greche. In seguito l'astronomo inglese John Flamsteed inventò un nuovo sistema di nomenclature, denominato in seguito nomenclatura di Flamsteed, molto simile a quello di Bayer, ma basato sull'utilizzo di numeri al posto delle lettere greche; il numero 1 però non era assegnato alla stella più luminosa, ma alla stella con ascensione retta (una coordinata astronomica analoga alla longitudine terrestre) più bassa. A seguito della scoperta delle stelle variabili, si è deciso di assegnare loro una nomenclatura diversa, basata sulle lettere maiuscole dell'alfabeto latino seguite dal genitivo della costellazione; la lettera di partenza non è però la A, ma la R, cui seguono S, T e così via; la A viene immediatamente dopo la Z. Una volta esaurite le lettere dell'alfabeto si riparte con RR e via dicendo (ad esempio S Doradus, RR Lyrae ecc.). Il numero di variabili scoperte è cresciuto al punto che in alcune costellazioni si è resa necessaria l'adozione di un nuovo sistema di nomenclature, che prevede la lettera V (che sta per variable) seguita da un numero identificativo e dal genitivo latino della costellazione (ad esempio V838 Monocerotis). In seguito, con il progredire dell'astronomia osservativa e l'utilizzo di strumenti sempre più avanzati, si è resa necessaria l'adozione di numerosi altri sistemi di nomenclatura, che hanno dato origine a nuovi cataloghi stellari. La sola organizzazione abilitata dalla comunità scientifica a conferire i nomi alle stelle, e più in generale a tutti i corpi celesti, è l'Unione Astronomica Internazionale.


 


La classificazione stellare è generalmente basata sulla temperatura superficiale delle stelle, che può essere stimata mediante la legge di Wien a partire dalla loro emissione luminosa. La temperatura superficiale è all'origine del colore dell'astro e di diverse particolarità spettrali, che consentono di dividerle in classi, a ciascuna delle quali è assegnata una lettera maiuscola. I tipi spettrali più utilizzati sono, in ordine decrescente di temperatura: O, B, A, F, G, K, M; in lingua inglese è stata coniata una frase per ricordare facilmente questa scala: Oh Be A Fine Girl, Kiss Me. Le stelle di tipo O, di colore blu-azzurro, sono le più massicce e luminose, visibili da grandissime distanze, ma anche le più rare; quelle di tipo M, rosse e solitamente grandi appena da permettere che abbia inizio la fusione dell'idrogeno nei loro nuclei, sono invece le più frequenti. Esistono poi diversi altri tipi spettrali utilizzati per descrivere alcuni tipi particolari di stelle: i più comuni sono L e T, utilizzati per classificare le nane rosse meno massicce più fredde e scure (che emettono principalmente nell'infrarosso) e le nane brune; di grande importanza sono anche i tipi C, R ed N, utilizzati per le stelle al carbonio, e W, utilizzato per le caldissime ed evolute stelle di Wolf-Rayet.
Ogni tipo spettrale è ulteriormente suddiviso in dieci sottoclassi, da 0 (la più calda) a 9 (la meno calda). Per esempio, il tipo A più caldo è l'A0, che è molto simile al B9, il tipo B meno caldo. Questo sistema dipende strettamente dalla temperatura superficiale della stella, ma perde valore se si considerano le temperature più alte; tant'è che non sembrano esistere stelle di classe O0 ed O1. Tale classificazione è detta classificazione spettrale di Morgan-Keenan-Kellman. Caratteristiche delle differenti classi spettrali nella sequenza principale

Classe Temperatura (K) Colore Massa (M☉) Raggio (R☉) Luminosità (L☉) Linee di assorbimento Esempio
O 28 000 - 50 000 Blu-azzurro 16 - 150 15 fino a 1 400 000 N, C, He e O 10 Lacertae
B 9 600 - 28 000 Bianco azzurro 3,1 - 16 7 20 000 He, H Regolo
A 7 100 - 9 600 Bianco 1,7 - 3,1 2,1 80 H Altair
F 5 700 - 7 100 Bianco giallastro 1,2 - 1,7 1,3 6 Metalli: Fe, Ti, Ca, Sr e Mg Procione
G 4 600 - 5 700 Giallo 0,9 - 1,2 1,1 1,2 Ca, He, H ed altri Sole
K 3 200 - 4 600 Arancione 0,4 - 0,8 0,9 0,4 Metalli + TiO2 α Centauri B
M 1 700 - 3 200 Rosso 0,08- 0,4 0,4 0,04 Come sopra Stella di Barnard
Le stelle possono essere anche suddivise in gruppi in base agli effetti, strettamente dipendenti dalle dimensioni spaziali dell'astro e dalla sua gravità superficiale, che la luminosità sortisce sulle linee spettrali. Identificate da numeri romani, le classi di luminosità sono comprese tra la 0 (ipergiganti) e la VII (nane bianche), passando per la III (giganti) e la V (la sequenza principale, che comprende la maggior parte delle stelle, tra cui il Sole); tale classificazione è detta classificazione spettrale di Yerkes.
La classificazione di certe stelle richiede l'uso di lettere minuscole per descrivere alcune situazioni particolari rilevate nei loro spettri: ad esempio, la "e" indica la presenza di linee di emissione, la "m" indica un livello straordinariamente alto di metalli e "var" indica una variabilità nel tipo spettrale.
Le nane bianche godono di una classificazione a parte. Indicate genericamente con la lettera D (che sta per l'inglese dwarf, nano), sono a loro volta suddivise in sottoclassi che dipendono dalla tipologia predominante delle linee riscontrate nei loro spettri: DA, DB, DC, DO, DZ e DQ; segue poi un numero che identifica la temperatura del corpo celeste.

 

 

 


Le stelle si formano all'interno delle nubi molecolari, delle regioni di gas ad "alta" densità presenti nel mezzo interstellare, costituite essenzialmente da idrogeno, con una quantità di elio del 23–28% e tracce di elementi più pesanti. Le stelle più massicce che si formano al loro interno le illuminano e le ionizzano, creando le cosiddette regioni H II.
La formazione di una stella ha inizio quando una nube molecolare inizia a manifestare fenomeni di instabilità gravitazionale, spesso innescati dalle onde d'urto di una supernova o della collisione tra due galassie. Non appena si raggiunge una densità della materia tale da soddisfare i criteri dell'instabilità di Jeans, la regione inizia a collassare sotto la sua stessa gravità.
Il graduale collasso della nube porta alla formazione di densi agglomerati di gas e polveri oscure al cui interno si forma la protostella, circondata da un disco che ha il compito di accrescerne la massa. Il destino della protostella dipende dalla massa che riesce ad accumulare: se questa è inferiore a 0,08 M, la protostella non raggiunge l'ignizione delle reazioni nucleari e si trasforma in una nana bruna; se possiede una massa fino ad otto masse solari, si forma una stella pre-sequenza principale, spesso circondata da un disco protoplanetario; se la massa è superiore ad 8 M, la stella raggiunge direttamente la sequenza principale senza passare per questa fase.

 



La sequenza principale è una fase di stabilità durante la quale le stelle fondono l'idrogeno del proprio nucleo in elio a temperatura e pressione elevate; le stelle trascorrono in questa fase circa il 90% della propria esistenza.
In questa fase ogni stella genera un vento di particelle cariche che provoca una continua fuoriuscita di materia nello spazio, che per gran parte delle stelle risulta irrisoria. Il Sole, ad esempio, perde, nel vento solare, 10−14 masse solari di materia all'anno, ma le stelle più massicce arrivano a perderne decisamente di più, sino a 10−7 – 10−5 masse solari all'anno; tale perdita può riflettersi in maniera sostanziale sulla successiva evoluzione dell'astro.
La durata della sequenza principale dipende dalla massa iniziale e dalla luminosità della stella. Le stelle più massicce consumano il proprio "combustibile nucleare" piuttosto velocemente ed hanno una vita decisamente più breve (qualche decina o centinaio di milioni di anni); le stelle più piccole invece bruciano l'idrogeno del nucleo molto lentamente ed hanno un'esistenza molto più lunga (decine o centinaia di miliardi di anni).
La sequenza principale termina non appena l'idrogeno, contenuto nel nucleo della stella, è stato completamente convertito in elio dalla fusione nucleare; la successiva evoluzione della stella segue vie diverse a seconda della massa dell'oggetto celeste.


Le stelle più piccole, le nane rosse (tra 0,08 e 0,4 masse solari), si riscaldano, divenendo per breve tempo delle stelle azzurre, per poi contrarsi gradualmente in nane bianche. Tuttavia, dato che la durata della vita di tali stelle è maggiore dell'età dell'Universo (13,7 miliardi di anni), si ritiene che nessuna di essa sia ancora giunta al termine della propria evoluzione.
Le stelle la cui massa è compresa tra 0,4 ed 8 masse solari attraversano, al termine della sequenza principale, una fase di notevole instabilità: il nucleo subisce una serie di collassi gravitazionali, incrementando la propria temperatura e dando inizio a diversi processi di fusione nucleare che riguardano anche gli strati immediatamente contigui al nucleo; gli strati più esterni invece si espandono per far fronte al surplus energetico proveniente dal nucleo e gradualmente si raffreddano, assumendo di conseguenza una colorazione rossastra. La stella, dopo esser passata per la fase instabile di subgigante, si trasforma in una fredda ma brillante gigante rossa. Durante questo stadio la stella fonde l'elio in carbonio e ossigeno e, qualora la massa sia sufficiente (~7-8 M), una parte di quest'ultimo in magnesio. Parallela a quella di gigante rossa è la fase di gigante blu, che intercorre come meccanismo di compensazione qualora la velocità delle reazioni nucleari subisca un rallentamento.
Si stima che il Sole diverrà una gigante rossa tra circa 5 miliardi di anni: le sue dimensioni saranno colossali (circa 100 volte quelle attuali) e il suo raggio si estenderà sino quasi a coprire l'attuale distanza che separa la stella dalla Terra (1 UA).
Anche le stelle massicce (con massa superiore ad 8 M), al termine della sequenza principale, subiscono numerose instabilità, che le portano ad espandersi allo stadio di supergigante rossa. In questa fase, l'astro fonde l'elio in carbonio e, all'esaurimento di questo processo, si innesca una serie di successivi collassi nucleari ed aumenti di temperatura e pressione che avviano i processi di sintesi di altri elementi più pesanti: neon, silicio e zolfo, per terminare con il nichel-56, che decade in ferro-56. In tali stelle può svolgersi in contemporanea la nucleosintesi di più elementi all'interno di un nucleo pluristratificato. In ciascuno degli strati concentrici avviene la fusione di un differente elemento: il più esterno fonde idrogeno in elio, quello immediatamente sotto fonde elio in carbonio e via dicendo, a temperature e pressioni sempre crescenti man mano che si procede verso il centro. Il collasso di ciascuno strato è sostanzialmente evitato dal calore e dalla pressione di radiazione dello strato sottostante, dove le reazioni procedono a un regime più intenso.
Qualora subiscano un rallentamento i processi di fusione nucleare, le supergiganti rosse possono attraversare uno stadio simile a quello di gigante blu, che prende il nome di supergigante blu; l'astro tuttavia, prima di raggiungere questo stadio, passa per la fase di supergigante gialla, caratterizzata da una temperatura e da dimensioni intermedie rispetto alle due fasi.
Le stelle supermassicce (>30 M), dopo aver attraversato la fase instabile di variabile blu luminosa, man mano che procedono lungo il loro percorso post-sequenza principale accumulano al loro centro un grande nucleo di ferro inerte; divengono così stelle di Wolf-Rayet, oggetti caratterizzati da venti forti e polverosi che provocano una consistente perdita di massa.



Nebulosa Elica NGC 7293

Quando una stella è prossima alla fine della propria esistenza, la pressione di radiazione del nucleo non è più in grado di contrastare la gravità degli strati più esterni dell'astro. Di conseguenza il nucleo va incontro ad un collasso, mentre gli strati più esterni vengono espulsi in maniera più o meno violenta; ciò che resta è un oggetto estremamente denso: una stella compatta, costituita da materia in uno stato altamente degenere. La tipologia di stella compatta che si viene a formare differisce in relazione alla massa iniziale della stella.
Se la stella possedeva originariamente una massa tra 0,08 ed 8 M si forma una nana bianca, un oggetto dalle dimensioni piuttosto piccole (paragonabili all'incirca a quelle della Terra) con una massa minore o uguale al limite di Chandrasekhar (1,44 M). Una nana bianca possiede una temperatura superficiale molto elevata, che col tempo tende a diminuire in funzione degli scambi termici con lo spazio circostante fino a raggiungere, in un lunghissimo lasso di tempo, l'equilibrio termico e trasformarsi in una nana nera. Sino ad ora non è stata ancora osservata alcuna nana nera; perciò gli astronomi ritengono che il tempo previsto perché una nana bianca si raffreddi del tutto sia di gran lunga superiore all'attuale età dell'Universo.
Se la stella morente ha una massa compresa tra 0,08 e 0,4 M dà luogo ad una nana bianca senza alcuna fase intermedia; se invece la sua massa è compresa tra 0,4 ed 8 M, essa, prima di trasformarsi in nana bianca, perde i suoi strati più esterni in una spettacolare nebulosa planetaria.
Nelle stelle con masse superiori ad 8 M, la fusione nucleare continua finché il nucleo non raggiunge una massa superiore al limite di Chandrasekhar. Oltrepassato questo limite, il nucleo non riesce più a tollerare la sua stessa massa e va incontro ad un improvviso e irreversibile collasso. L'onda d'urto che si genera provoca la catastrofica esplosione della stella in una brillantissima supernova di tipo II o di tipo Ib o Ic, se si trattava di una stella supermassiccia (>30 M). Le supernovae hanno una luminosità tale da superare, anche se per breve tempo, la luminosità complessiva dell'intera galassia che le ospita.
L'energia liberata nell'esplosione è talmente elevata da consentire la fusione dei prodotti della nucleosintesi stellare in elementi ancora più pesanti, in un fenomeno detto nucleosintesi delle supernovae. L'esplosione della supernova diffonde nello spazio la gran parte della materia che costituiva la stella; tale materia forma il cosiddetto resto di supernova, mentre il nucleo residuo sopravvive in uno stato altamente degenere. Se la massa del residuo è compresa tra 1,4 e 3,8 masse solari, esso collassa in una stella di neutroni (che talvolta si manifesta come pulsar); nel caso in cui la stella originaria sia talmente massiccia che il nucleo residuo mantiene una massa superiore a 3,8 masse solari (limite di Tolman-Oppenheimer-Volkoff), nessuna forza è in grado di contrastare il collasso gravitazionale ed il nucleo si contrae fino a raggiungere dimensioni inferiori al raggio di Schwarzschild: si origina un buco nero stellare.


Gran parte delle stelle ha un'età compresa tra 1 e 10 miliardi di anni. Vi sono stelle che però hanno età prossime a quella dell'Universo (13,7 miliardi di anni): la stella più vecchia conosciuta, HE 1523-0901, ha un'età stimata di 13,2 miliardi di anni.
La durata del ciclo vitale di una stella dipende dalla massa che essa possiede al momento della sua formazione: quanto più una stella è massiccia, tanto più la durata del suo ciclo vitale è breve. Infatti la pressione e la temperatura che caratterizzano il nucleo di una stella massiccia sono nettamente superiori a quelle presenti nelle stelle meno massicce; di conseguenza l'idrogeno viene fuso in maniera più "efficiente" tramite il ciclo CNO (anziché secondo la catena protone-protone), che produce una quantità di energia superiore mentre le reazioni avvengono a un ritmo più serrato. Le stelle più massicce hanno una vita prossima al milione di anni, mentre le meno massicce (come le nane arancioni e rosse) bruciano il proprio combustibile nucleare molto lentamente arrivando a vivere per decine o centinaia di miliardi di anni.

 

 

 

Il campo magnetico di una stella è generato all'interno della sua zona convettiva, nella quale il plasma, messo in movimento dai moti convettivi, si comporta come una dinamo. L'intensità del campo varia in relazione alla massa e alla composizione della stella, mentre l'attività magnetica dipende dalla sua velocità di rotazione. Un risultato dell'attività magnetica sono le caratteristiche macchie fotosferiche, regioni a temperatura inferiore rispetto al testo della fotosfera in cui il campo magnetico si presenta particolarmente intenso. Altri fenomeni strettamente dipendenti dal campo magnetico sono gli anelli coronali ed i flare.
Le giovani stelle, che tendono ad avere una velocità di rotazione molto alta, hanno un'attività magnetica molto intensa. I campi magnetici possono influire sui venti stellari arrivando ad agire come dei "freni" che rallentano progressivamente la rotazione della stella man mano che essa compie il proprio percorso evolutivo. Per questo motivo le stelle non più giovani, come il Sole, compiono la propria rotazione in tempi più lunghi e presentano un'attività magnetica meno intensa. I loro livelli di attività tendono a variare in maniera ciclica e possono cessare completamente per brevi periodi di tempo; un esempio fu il minimo di Maunder, durante il quale il Sole andò incontro ad un settantennio di attività minima, in cui il numero delle macchie fu esiguo, se non quasi assente per diversi anni.


L'aspetto schiacciato di Achernar (α Eridani) è causato dalla rapida rotazione sul proprio asse.

La rotazione stellare è il movimento angolare di una stella sul proprio asse di rotazione, la cui durata può essere misurata in base al suo spettro o in maniera più accurata monitorando il periodo di rotazione delle strutture attive superficiali (macchie stellari).
Le giovani stelle hanno una rapida velocità di rotazione, superiore spesso a 100 km/s all'equatore; ad esempio Achernar (α Eridani), una stella di classe spettrale B, ha una velocità di rotazione all'equatore di circa 225 km/s o superiore, il che conferisce all'astro un aspetto schiacciato, con il diametro equatoriale più largo del 50% rispetto al diametro polare. Tale velocità di rotazione è di poco inferiore alla velocità critica di 300 km/s, raggiunta la quale la stella arriverebbe a frantumarsi; il Sole, di contro, compie una rotazione completa ogni 25 – 35 giorni, con una velocità angolare all'equatore di 1,994 km/s. Il campo magnetico ed il vento della stella svolgono un'azione frenante sulla sua rotazione man mano che essa si evolve lungo la sequenza principale, arrivando a rallentarla, lungo questo arco di tempo, anche in maniera significativa.
Le stelle degeneri hanno una massa elevata ed estremamente densa; ciò comporta una velocità di rotazione elevata, ma non sufficiente a raggiungere la velocità in grado di favorire la conservazione del momento angolare, cioè la tendenza di un corpo in rotazione a compensare una contrazione nelle dimensioni con una crescita nella velocità di rotazione. La perdita di gran parte del momento angolare da parte della stella è il risultato della perdita di massa attraverso il vento stellare. Fanno eccezione le stelle di neutroni, che, manifestandosi come sorgenti radio pulsanti (pulsar), possono avere delle velocità di rotazione elevatissime; la pulsar del Granchio (posta all'interno della Nebulosa del Granchio), ad esempio, ruota 30 volte al secondo. La velocità di rotazione di una pulsar è però destinata a diminuire nel corso del tempo, a causa della continua emissione di radiazioni.

 

 

La Stella Pistola (in quest'immagine di HST con la Nebulosa Pistola) è una delle stelle più luminose conosciute: infatti irradia nell'arco di 20 secondi la stessa energia che il Sole irradierebbe in un anno.

L'energia prodotta tramite le reazioni nucleari viene irradiata nello spazio sotto forma di onde elettromagnetiche e particelle; queste ultime vanno a costituire il vento stellare, costituito da particelle sia provenienti dagli strati esterni della stella, come protoni liberi, particelle alfa, beta e ioni di diverso tipo, sia dall'interno stellare, come i neutrini.
La produzione di energia nel nucleo stellare è il motivo per il quale le stelle appaiono così brillanti: in ogni momento due o più nuclei atomici vengono fusi assieme a formarne uno più pesante, mentre viene liberata una grande quantità di energia tramite radiazioni gamma. Durante l'attraversamento degli strati più esterni la radiazione gamma perde gradualmente energia trasformandosi in altre forme meno energetiche di radiazione elettromagnetica, tra cui la luce visibile.
Oltre che alle lunghezze d'onda del visibile, una stella emette radiazioni anche alle altre lunghezze dello spettro elettromagnetico invisibili all'occhio umano, dai raggi gamma alle onde radio, passando per i raggi X, l'ultravioletto, l'infrarosso e le microonde.
Nota la distanza esatta di una stella dal Sistema solare, ad esempio tramite il metodo della parallasse, è possibile ricavare la luminosità della stella.
In astronomia la luminosità è definita come la quantità di luce e di altre forme di energia radiante emessa da una stella per unità di tempo; essa dipende strettamente dal raggio e dalla temperatura superficiale della stella. Approssimando la stella a un corpo nero ideale, la luminosità (L) è direttamente proporzionale al raggio (R) e alla temperatura effettiva (Teff); tali parametri, messi in relazione tra loro, danno l'equazione:

dove 4πR2 indica la superficie della stella (approssimata a una sfera) e σ la costante di Stefan-Boltzmann.
Sono molte, tuttavia, le stelle che non emanano un flusso energetico (vale a dire la quantità di energia irradiata per unità di superficie) uniforme attraverso la propria superficie; ad esempio Vega, che ruota molto velocemente sul proprio asse, emette un flusso maggiore ai poli che non all'equatore.
Le macchie stellari sono zone della fotosfera che appaiono poco luminose per via della temperatura inferiore al resto della superficie. Le stelle più grandi, le giganti, possiedono macchie molto vaste e pronunciate e mostrano un importante oscuramento al bordo, vale a dire la luminosità diminuisce man mano che si procede verso il bordo del disco stellare; le stelle più piccole invece, le nane come il Sole, hanno in genere poche macchie, tutte di piccole dimensioni; fanno eccezione le nane rosse a brillamento del tipo UV Ceti, che possiedono delle macchie molto vaste.
La luminosità di una stella è misurata tramite la magnitudine, distinta in apparente ed assoluta. La magnitudine apparente misura la luminosità della stella percepita dall'osservatore; essa dipende dunque dalla luminosità reale della stella, dalla sua distanza dalla Terra e dalle alterazioni provocate dall'atmosfera terrestre (seeing). La magnitudine assoluta o intrinseca è la magnitudine apparente che la stella avrebbe se si trovasse alla distanza di 10 parsec (32,6 anni luce) da Terra, ed è strettamente correlata alla luminosità reale della stella.

Numero di stelle per magnitudine

Magnitudine apparente Numero di stelle
0 4
1 15
2 48
3 171
4 513
5 1602
6 4800
7 14000

Entrambe le scale di magnitudine hanno un andamento logaritmico: una variazione di magnitudine di 1 unità equivale ad una variazione di luminosità di 2,5 volte, il che significa che una stella di prima magnitudine (+1,00) è circa 2,5 volte più brillante di una di seconda magnitudine (+2,00) e, quindi, circa 100 volte più brillante di una di sesta magnitudine (+6,00), che è la magnitudine limite sino alla quale l'occhio umano riesce a distinguere gli oggetti celesti.
In entrambe le scale, quanto più piccolo è il numero della magnitudine, tanto più luminosa risulta essere la stella e viceversa; di conseguenza, le stelle più brillanti arrivano ad avere dei valori di magnitudine negativi. La differenza di luminosità tra due stelle è calcolata sottraendo la magnitudine della stella più brillante (mb) alla magnitudine della stella meno brillante (mf) ed utilizzando il risultato come esponente del numero 2,512; cioè:

Δm = mf − mb
2,512Δm = ΔL (Differenza di luminosità)

La magnitudine apparente (m) e assoluta (M) di ciascuna stella non coincidono quasi mai, a causa sia della sua luminosità effettiva sia della sua distanza dalla Terra; ad esempio Sirio, la stella più brillante del cielo notturno, ha una magnitudine apparente di −1,44 ma una magnitudine assoluta di +1,41, e possiede una luminosità circa 23 volte quella del Sole. La nostra stella ha una magnitudine apparente di −26,7, ma la sua magnitudine assoluta è di appena +4,83; Canopo, la seconda stella più brillante del cielo notturno, ha invece una magnitudine assoluta di −5,53 ed è quasi 14 000 volte più luminosa del Sole. Nonostante Canopo sia enormemente più luminosa di Sirio, è quest'ultima ad apparire più brillante poiché è nettamente più vicina: dista infatti 8,6 anni luce dalla Terra, mentre Canopo è situata a 310 anni luce di distanza dal nostro pianeta.
La stella con la magnitudine assoluta più bassa rilevata è LBV 1806-20, con un valore di −14,2; la stella sembra essere almeno 5 000 000 di volte più luminosa del Sole. Le stelle meno luminose conosciute si trovano nell'ammasso globulare NGC 6397: le più deboli si aggirano sulla 26a magnitudine, ma alcune arrivano persino alla 28a. Per avere un'idea della piccola luminosità di queste stelle, sarebbe come tentare di osservare dalla Terra la luce di una candelina da torta situata sulla Luna.



La magnitudine apparente (m) di una stella, pianeta o di un altro oggetto celeste è una misura della sua luminosità rilevabile dal punto d'osservazione. Poiché un oggetto estremamente luminoso può apparire molto debole se si trova ad una grande distanza, per superare il problema delle diverse distanze a cui si trovano gli oggetti celesti è necessario introdurre il concetto di magnitudine assoluta.
La scala con cui sono misurate le magnitudini affonda le sue radici nella pratica ellenistica di dividere le stelle visibili ad occhio nudo in sei magnitudini. Le stelle più luminose erano dette di prima magnitudine (m = +1), quelle brillanti la metà di queste erano di seconda magnitudine, e così via fino alla sesta magnitudine (m = +6), al limite della visione umana (senza un telescopio o altri aiuti ottici). Questo metodo piuttosto rozzo di indicare la luminosità delle stelle fu reso popolare da Tolomeo nel suo Almagesto, e si pensa che sia stato inventato da Ipparco. Il sistema prendeva in considerazione solo le stelle, e non considerava la Luna, il Sole o altri oggetti celesti non stellari.
Nel 1856, Pogson formalizzò il sistema definendo una stella di prima magnitudine come una stella che fosse 100 volte più luminosa di una stella di sesta magnitudine. Perciò, una stella di prima magnitudine si trova ad essere 2,512 volte più luminosa di una stella di seconda. La quinta radice di 100 (2,512) è conosciuta come rapporto di Pogson. La scala di Pogson fu fissata in origine assegnando alla stella Polare una magnitudine di 2. Gli astronomi hanno in seguito scoperto che la Polare è leggermente variabile, pertanto oggi viene usata come riferimento la stella Vega.
Il sistema moderno non è più limitato a sei magnitudini. Oggetti molto luminosi hanno magnitudini negative. Per esempio Sirio, la stella più brillante della sfera celeste, ha una magnitudine apparente posta tra -1,44 e -1,46. La scala moderna include la Luna e il Sole. La prima, quando è piena, è di magnitudine -12, mentre il secondo raggiunge la magnitudine -26,7. Il Telescopio Spaziale Hubble e il Telescopio Keck hanno registrato stelle di magnitudine +30.

Mag. app. Oggetto celeste
-26,8 Sole
-12,6 Luna piena
-4,4 Luminosità di Venere al suo massimo
-2,8 Luminosità di Marte al suo massimo
-1,5 Sirio, la stella più luminosa
-0,7 Canopo, la seconda stella più luminosa
+6,0 Le stelle più deboli osservabili ad occhio nudo
+12,6 Il quasar più luminoso
+30 Gli oggetti più deboli osservabili col Telescopio Spaziale Hubble


Detta L0 la luminosità intrinseca di una sorgente, un osservatore a distanza d misura una luminosità L data da:

Più formalmente, la magnitudine apparente in una determinata banda x è definita tramite la formula di Pogson:

dove Fx è il flusso osservato nella banda x, e C è una costante che dipende dalle unità usate. Si vede subito dalla definizione che più un oggetto è debole più la sua magnitudine è alta, contrariamente al senso comune. La seconda cosa da notare è che la scala è logaritmica: il rapporto fra le luminosità di due oggetti corrisponde quindi alla differenza delle loro magnitudini. Per esempio, una differenza di 3,2 significa che un oggetto è circa 19 volte più luminoso di un altro, perché il rapporto di Pogson elevato alla potenza di 3,2 è 19,054607... La natura logaritmica della scala è dovuta al fatto che l'occhio umano ha esso stesso una risposta logaritmica. Vedi anche legge di Weber-Fechner.


La misura della magnitudine viene complicata dal fatto che gli oggetti celesti non emettono radiazione monocromatica, bensì distribuita su un proprio caratteristico spettro. Per questo è importante sapere in quale regione di tale spettro stiamo osservando. Nel tempo si sono affermate tre principali bande in lunghezza d'onda: U (centrata attorno a 350 nm, nell'ultravioletto vicino), B (circa 435 nm, nel blu) e V (circa 555 nm, nel mezzo dell'intervallo di sensibilità dell'occhio umano). La banda V è stata scelta perché fornisce magnitudini molto simili a quelle viste dall'occhio umano, e quando un valore di magnitudine apparente è fornito senza altre spiegazioni, si tratta in genere di una magnitudine V, chiamata anche magnitudine visuale. La banda B è invece rappresentativa della sensibilità delle pellicole fotografiche.

Tuttavia le stelle più fredde, come le giganti rosse e le nane rosse, emettono poca energia nelle parti blu ed UV del loro spettro, e la loro luminosità viene spesso sotto-stimata nella scala UBV. In effetti, alcune stelle di tipo L e T avrebbero una magnitudine UBV superiore a 100 perché emettono pochissima luce visibile, ma sono molto più luminose nell'infrarosso. L'originario sistema UBV è stato quindi integrato con due nuovi "colori", R ed I, centrati rispettivamente a 797 e 1220 nm (sistema di Johnson-Cousin). Una volta scelta la banda su cui osservare, bisogna anche ricordare che ogni rilevatore utilizzato per raccogliere la radiazione (pellicole, sensori CCD, fotomoltiplicatori...) ha una diversa efficienza al variare della frequenza del fotone incidente: dovremo quindi tenere conto anche di queste caratteristiche curve di risposta quando vogliamo risalire alla luminosità di un oggetto osservato. Nella pratica il passaggio dalle magnitudini strumentali a quantità di effettivo significato astrofisico avviene attraverso il confronto con opportune stelle standard, oggetti scelti come riferimento di cui si conosce la luminosità e la distribuzione spettrale.

 

 


In astronomia, la magnitudine assoluta (detta anche luminosità assoluta) è la magnitudine apparente (m) che un oggetto avrebbe se si trovasse ad una distanza dall'osservatore di 10 parsec o 1 Unità Astronomica a seconda del tipo di oggetto (stellare/galattico o corpo del Sistema solare). Più semplicemente, è una misura della luminosità intrinseca di un oggetto, senza tener conto delle condizioni in cui si trova l'osservatore. Più un oggetto è intrinsecamente luminoso, più la sua magnitudine assoluta è numericamente bassa, anche negativa.
Nel definire la magnitudine assoluta, è necessario specificare il tipo di radiazione elettromagnetica che viene misurata. Se ci si riferisce al totale dell'energia emessa, il termine corretto è magnitudine bolometrica. Mentre se si considera lo spettro del visibile si parla di magnitudine assoluta visuale.
Nell'astronomia stellare e galattica la distanza standard è di 10 parsec (circa 32,6 anni luce o 3 × 1014 km). Questa magnitudine assoluta è indicata con il simbolo M. Per gli oggetti molto vasti come le galassie ci si riferisce un oggetto di pari luminosità intrinseca ma di aspetto puntiforme.
Molte stelle visibili ad occhio nudo hanno magnitudini assolute che sarebbero capaci di formare ombre da una distanza di 10 parsec: Rigel (- 6,7), Deneb (- 8,5), Naos (- 7,3), e Betelgeuse (- 5,6). Per confronto, Sirio ha una magnitudine assoluta di 1,4 e il Sole ha una magnitudine assoluta di circa 4,5. Le magnitudini assolute delle stelle in genere sono comprese tra - 10 e + 17. Proxima Centauri, una Nana rossa che è la stella più vicina alla Terra dopo il Sole, ha una magnitudine assoluta di 15,4.
Confrontando invece con le magnitudini apparenti (cioè quello che si vede osservando il cielo notturno), Sirio è - 1,4. Venere arriva a - 4,3 al suo massimo e la Luna piena è - 12. L'ultimo oggetto con una magnitudine comparabile alla magnitudine assoluta delle stelle nominate più sopra fu visibile come una supernova circa mille anni fa; il suo resto è la nebulosa del Granchio, M1. Gli astronomi cinesi riferirono di poter leggere usando la sua luce, di vedere ombre causate da essa e di poterla osservare durante il giorno.
Il diagramma H-R lega la magnitudine assoluta con la luminosità, la classificazione stellare e la temperatura superficiale.
Conosciuta la magnitudine apparente (m) è possibile calcolare la magnitudine assoluta (M) con la formula:

dove è la distanza dell'oggetto espressa in parsec.
Numerose stelle hanno una magnitudine variabile nel tempo. In alcune di queste le variazioni dipendono dalla loro magnitudine assoluta, e sono quindi estremamente utili per il calcolo delle distanze: osservando il periodo di luminosità, se ne ricava la magnitudine assoluta, e confrontandola con quella apparente si può calcolarne immediatamente la distanza. Tra questi tipi di stelle, le più importanti sono le Cefeidi (così chiamate perché la prima stella di questo tipo fu scoperta nella costellazione di Cefeo.
Per pianeti, comete e asteroidi si usa una differente definizione di magnitudine assoluta, perché quella descritta sopra sarebbe così bassa da essere ben poco utile. Per questi oggetti, la magnitudine assoluta (H) è la magnitudine apparente che l'oggetto avrebbe se si trovasse ad 1 Unità Astronomica sia dal Sole che dalla Terra, con un angolo di fase di zero gradi (insomma osservandolo dal centro del Sole). Questo è fisicamente impossibile, ma è conveniente dal punto di vista del calcolo.
Per una meteora, la distanza standard è un'altezza di 100 km allo zenit dell'osservatore.
Per convertire la magnitudine assoluta M in magnitudine assoluta H sottrarre 31,57. Per passare da H a M aggiungere la stessa quantità.

 

 


La magnitudine limite è la magnitudine apparente della stella più debole presente nel campo visivo dell'osservatore. Questo valore dà un'indicazione della qualità del cielo che si sta osservando.
La magnitudine limite ad occhio nudo e sotto un cielo perfettamente buio e terso è circa 6; questo valore può diminuire a causa di luce diffusa (a causa dell'inquinamento luminoso o per la presenza della Luna prossima al plenilunio) o per la presenza di velature nuvolose. Esistono delle apposite carte celesti che permettono di valutare la magnitudine limite semplicemente contando il numero di stelle all'interno di un'area delimitata da stelle molto luminose e facilmente riconoscibili: più stelle ci sono, più profonda sarà la magnitudine limite.
In astrofotografia, la magnitudine limite di una ripresa è la magnitudine della stella più debole in essa contenuta; il suo valore dipende generalmente dal tempo di esposizione e dalla risposta spettrale del sensore. I CCD, per esempio, sono più sensibili al rosso e al vicino infrarosso delle comuni pellicole fotografiche. Di conseguenza, due riprese della stessa zona, una CCD e una "chimica", che abbiano la stessa magnitudine limite per le stelle blu, possono avere limiti molto diversi (2-3 magnitudini) per quelle rosse.
Il valore della magnitudine apparente cambia a seconda del luogo di osservazione. Empiricamente si può osservare che gli abitanti della zona periferica di New York possono osservare potenzialmente una magnitudine limite di 4.0. Tale valore corrisponde a circa 250 stelle visibili, ovvero un decimo del totale delle stelle che possono essere osservate sotto un cielo buio privo di inquinamento luminoso.
Dai quartieri periferici di New York come Brooklyn, Queens, Staten Island o il Bronx), il limite può abbassarsi a 3.0, consentendo di osservare circa 50 stelle. Dal centro di Manhattan, il limite si abbassa a 2.0. Ciò significa che dal centro di una città come New York sono visibili circa 15 stelle per notte su tutta la volta celeste.
Dalle aree relativamente buie delle periferie cittadine, il limite di solito si approssima al 5 o poco più, ma da siti geografici molto isolati e privi di inquinamento, è possibile osservare ai limiti dell'ottava magnitudine visuale. La gran parte degli osservatori è in grado di osservare stelle con magnitudine limite di 6. Tale valore era il limite che le mappe stellari consideravano nella loro stampa, prima dell'invenzione del telescopio.